Filippo Salsone, vittima della mafia senza contributi
All’inizio degli anni ’80 il maresciallo della polizia penitenziaria Filippo Salsone prestava servizio presso il carcere di Cosenza in stretta collaborazione con l’allora direttore Sergio Cosmai. Salsone era considerato una spina nel fianco dai detenuti e dagli esponenti della criminalità organizzata locale per la sua integrità e per l’impegno nel far rispettare le regole all’interno del carcere. Per queste ragioni, il 7 febbraio 1986 il maresciallo fu assassinato da tre sicari mentre tornava a casa dei suoi genitori a Brancaleone, un centro di 3.500 anime in provincia di Reggio Calabria. Gli autori del delitto non sono mai stati individuati.
Nel 1987, un anno dopo l’omicidio, il capo della polizia ha inserito il maresciallo Salsone tra le vittime del dovere. Nel 2003, il sindaco di Brancaleone (Reggio Calabria) gli ha intitolato una strada e nel 2007 gli è stata dedicata la caserma della polizia penitenziaria di Palmi (Reggio Calabria). Nel 2010, il presidente della Repubblica ha insignito il maresciallo della medaglia d’oro al merito civile, con la seguente motivazione: «Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato».
Concetta Minniti, vedova di Salsone, ed i figli Paolo e Antonino, hanno chiesto il riconoscimento dei contributi previsti dalla legge 3 agosto 2004, n. 206 («Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice»), ma il Ministero dell’interno, sulla base dei pareri espressi dalla prefettura di Reggio Calabria e dal capo della Polizia, ha negato l’erogazione dei contributi, specificando che l’omicidio non è riconducibile a una vicenda di mafia.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5.01023 del 17 settembre 2013 (leggi il testo) abbiamo chiesto al Ministro dell’Interno se intenda disporre con urgenza il riconoscimento dei contributi previsti dalla legge in favore dei familiari del maresciallo Salsone e se intenda altresì motivare il diniego finora espresso in merito alla concessione di tali contributi che contrasta apertamente con le onorificenze assegnate al maresciallo, vittima del dovere, assassinato dalla mafia.
Scafa-Bussi: il valzer dei cementifici
Abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare (atto n. 5-00959, leggi il testo completo) a sostegno dei lavoratori del cementificio di Scafa (Pescara) che stanno rischiando il posto di lavoro in seguito alla decisione di Italcementi di chiudere il proprio impianto a partire dal 31 gennaio 2014 anziché dal 2015, come precedentemente concordato con il Ministero del Lavoro.
L’azienda ha motivato l’anticipo della chiusura con il perdurare della crisi dell’intera filiera delle costruzioni che ha visto diminuire le proprie vendite di oltre il 50% negli ultimi dieci anni.
In evidente contraddizione con quanto asserito da Italcementi ci è parsa la notizia recente di un interessamento della ditta Toto Costruzioni Generali Spa alla realizzazione di un nuovo cementificio nei pressi di Bussi sul Tirino (Pescara), non molto distante da Scafa, mediante l’utilizzo di circa 50 milioni di euro di fondi pubblici destinati alla bonifica di quel territorio.
Tali fondi, inspiegabilmente congelati dal Commissario straordinario delegato all’emergenza socio-economico-ambientale del bacino del fiume Aterno, potrebbero dunque essere spesi per allestire un nuovo cementificio a soli venti chilometri da un altro cementificio in chiusura.
In merito alla vicenda, abbiamo chiesto l’intervento urgente del Governo non solo per tutelare i lavoratori del cementificio di Scafa, ma anche e soprattutto affinché le risorse economiche pubbliche non siano utilizzate per costruire un nuovo impianto inquinante, ma per realizzare uno sviluppo industriale e occupazionale della zona sostenibile dal punto di vista economico ed ambientale.
Tollo: 500 tonnellate di rifiuti tossici
In provincia di Chieti, e precisamente nella contrada Venna del Comune di Tollo, giace un deposito di materiali tossici da anni in attesa di essere trasferito in un’apposita discarica.
Si tratta di oltre 500 tonnellate di veleni residuati da lavorazioni industriali, composti chimici ad alto contenuto di eternit, piombo, arsenico, alluminio e fanghi di fogna provenienti da industrie del nord-est, ma anche abruzzesi e marchigiani, che versano attualmente in uno stato di completo abbandono.
Una parte del carico, malamente ricoperta, è esposta agli agenti atmosferici e non viene monitorata, un’altra invece è stata interrata nel 2007 in un area protetta da una barriera impermeabile e da un muretto in calcestruzzo e rete metallica.
Il rischio ambientale è molto elevato, se si considera che il torrente Venna, le cui acque scorrono a pochi metri dal deposito dei rifiuti, si riversa nel fiume Foro che bagna 24 comuni tra le province di Chieti e di Pescara.
Il Comune di Tollo ha più volte richiesto alla Regione Abruzzo di attivarsi per la messa in sicurezza del sito, ma non ha ad oggi ricevuto alcuna risposta.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00936 del 20 agosto 2013 (leggi il testo) abbiamo chiesto al Ministro dell’Ambiente se sia a conoscenza delle condizioni della discarica di Tollo e se sia nelle sue intenzioni convocare al riguardo il Presidente della Regione Abruzzo ed i sindaci dei comuni interessati al fine di trovare urgentemente una soluzione che impedisca il verificarsi di un danno ambientale senza precedenti.
Air One: una pioggia di milioni dallo Stato
La compagnia aerea “Air One”, fondata nel 1983 dall’imprenditore abruzzese Carlo Toto, ha sottoscritto nel 2002 tre diverse convenzioni con l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac), aventi ad oggetto i servizi di trasporto sulle rotte Cagliari-Milano, Alghero-Milano e Alghero-Roma.
Tali convenzioni prevedevano che per l’attività di collegamento tra la Sardegna e i due principali centri del continente, ogni anno, Air One ricevesse quasi tre milioni di euro di contributi pubblici.
Nel 2003, in seguito a presunti maggiori oneri sostenuti dalla compagnia aerea nell’effettuazione dei collegamenti sopra descritti – ed in virtù di alcune clausole contenute nelle convenzioni con l’Enac – Air One ha rivendicato il diritto a ricevere un ammontare di contributi di circa 15 volte superiore a quello originariamente pattuito.
Con tre domande d’arbitrato, previste dalle convenzioni in caso di contestazioni, Air One ha chiesto all’Enac il versamento di quasi 44 milioni di euro, oltre a interessi e spese. Gli arbitrati si sono conclusi tutti a favore della compagnia Air One a cui è stato riconosciuto il diritto a ricevere dall’Enac oltre 36 milioni di euro.
L’Enac ha impugnato i tre lodi davanti alla Corte d’Appello di Roma che ha confermato le decisioni arbitrali con la sentenza del 27 giugno 2007. La sentenza è stata successivamente confermata dalle Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato l’Enac anche al pagamento di 20.000 euro per le spese di giudizio.
Con l’interrogazione parlamentare n. 5/00923 dell’8 agosto 2013 (leggi il testo), abbiamo chiesto al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti se sia a conoscenza dei fatti sopra esposti e dei contenuti delle convenzioni sottoscritte dall’Enac ed Air One, in particolare delle clausole che hanno portato alla condanna dell’Ente a corrispondere oltre 36 milioni di euro alla compagnia aerea di proprietà di Carlo Toto.
Riteniamo che sia urgente un accertamento da parte del Governo in merito alle responsabilità dell’allora Ministro dei Trasporti e dei funzionari dell’Enac che hanno partecipato alla stipula delle tre convenzioni in favore di Air One contenenti clausole tanto onerose a carico dello Stato.
Il nostro “contro-piano carceri”
https://www.youtube.com/watch?v=2cdzs_pqz9M
Come abbiamo riferito ieri pomeriggio in una conferenza stampa (vedi il video qui a fianco), abbiamo elaborato un piano carceri alternativo basato sui dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ed ispirato ai principi di economicità, tempestività, sostenibilità ambientale e rispetto dei diritti umani.
Il progetto consente, a fronte di una spesa di 355 milioni di euro, di raggiungere una capacità complessiva di oltre 69mila posti per i detenuti, facendoli vivere in un ambiente salubre, senza costruire nuovi edifici e tenendoli vicini alle loro famiglie.
Attraverso un più corretto utilizzo dei fondi a disposizione, l’Italia potrebbe uscire dall’emergenza in due anni e, soprattutto, rispettare le prescrizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si possono infatti creare i posti che mancano spendendo molto meno e agendo più rapidamente, evitando amnistie e facendo a meno del Commissario straordinario, durante la cui amministrazione non sono stati impiegati 228milioni di euro di Fondi Fas e sono state commissionate al contempo alcune discutibili consulenze.
La situazione attuale è davvero insostenibile come confermano i dati a disposizione: i detenuti in Italia sono, più o meno, 66 mila, i posti regolamentari 47.040. Dunque ne servirebbero almeno altri 19mila, che salgono a 25mila se consideriamo le strutture inutilizzabili per manutenzione e ristrutturazione. Si deve fare in fretta, visto che l’Italia ha dieci mesi per mettersi in regola, dopo la condanna della Corte europea.
Il Piano carceri attualmente in vigore ha consenganto ad oggi zero posti. Ne prevede 4.050 entro maggio 2014 e altri 1.299 successivamente attraverso le ristrutturazioni degli edifici già esistenti. Sommando anche gli spazi consegnati dal Ministero delle Infrastrutture e dal Dap, il totale sarà di 12.210 posti regolamentari, una cifra inferiore alla metà dell’attuale fabbisogno (che, ricordiamo, ammonta a 25mila nuovi posti).
Noi riteniamo assai più opportuno seguire il piano già elaborato dal Dap che non prevede nuove carceri se non un istituto da 800 posti nell’area del napoletano-casertano (costo 40 milioni di euro) e la cui ratio sta nel recupero funzionale di istituti di pena male utilizzati, nel recupero di sezioni chiuse e nella riallocazione delle cubature.
Il risparmio di risorse economiche sarebbe garantito dal fatto che il Dap ha già al suo interno una struttura di professionisti e specialisti competenti a riguardo. Mentre infatti al Commissario straordinario ogni nuovo posto costa circa 75mila euro, per il Dap la spesa preventivata è di 50mila euro.
Perché, dunque, non invertire la rotta?
Malasanità: è urgente un intervento del Governo
Il 25 dicembre del 2010, presso il reparto di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale “San Giovanni – Addolorata” di Roma, dopo appena cinque mesi di vita, è deceduta la piccola Giulia Maria, andata in coma a causa di un intervento cesareo tardivo, effettuato a ben quarantasei minuti dal primo allarme di ipossia lanciato dal monitor.
Un anno e mezzo più tardi, in data 29 giugno 2012, presso la stessa struttura ospedaliera, si è verificato un altro decesso neonatale causato da errore medico.
Il caso ha riguardato la morte di Marcus (questo il nome del bambino) dovuto all’errato utilizzo di una flebo di latte in polvere al posto di una contenente soluzione fisiologica, come evidenziato dalle indagini disposte dalla Procura di Roma e come riportato da alcuni quotidiani locali (Corriere della Sera/Cronaca di Roma, Il Messaggero, etc.).
Per fare luce su queste tristi vicende, in data 22 gennaio 2013 il Deputato Francesco Barbato dell’Italia dei Valori ha presentato un’interrogazione parlamentare (Atto Camera n. 4-19437) che ad oggi non ha ancora ricevuto risposta.
Con l’ interrogazione parlamentare n. 4/01539 (leggi il testo) del 1 agosto 2013, abbiamo chiesto al Ministro della Salute di quale documentazione disponga in merito ai fatti sopra descritti e quali provvedimenti urgenti intenda adottare per contrastare efficacemente il fenomeno della malasanità in Italia.
Quirinale: “Ridicolo censurare il nome del Presidente”
Successivamente al mio intervento alla Camera del 26 luglio scorso (ripreso nel video qui a fianco), in cui sono stato invitato dalla Presidente Boldrini a non nominare il Presidente della Repubblica, le agenzie di stampa hanno riportato una nota dello stesso Quirinaleche ha espresso la propria posizione netta al riguardo:
“Ai presidenti delle Camere spetta di garantire, nel dibattito parlamentare, il rispetto di regole di correttezza istituzionale e di moderazione del linguaggio. È invece semplicemente ridicolo il tentativo di far ritenere che il presidente della Repubblica aspiri a non essere nominato o citato in modo appropriato nel corso delle discussioni in Parlamento”.
https://www.youtube.com/watch?v=5HJ0PlriQTU
Proposta di legge per istituire una Commissione di inchiesta sulla vicenda Shalabayeva
Con la Proposta di legge n. 1422, datata 25 luglio 2013, abbiamo proposto di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che faccia luce sull’espulsione della Sig.ra Alma Shalabayeva e di sua figlia dal territorio italiano verso il Kazakistan, seguita al cosiddetto “blitz” nel quartiere Casalpalocco di Roma della notte tra il 28 e il 29 maggio 2013 ad opera di una squadra di decine di agenti della Polizia di Roma, tra cui uomini della Squadra Mobile, dell’Ufficio Stranieri e della Digos.
Non sono note infatti né la struttura di comando né le motivazioni di un’operazione di polizia di tale portata, assai rilevante sotto il profilo della sicurezza interna, delle relazioni diplomatiche e, soprattutto, della difesa dei diritti umani. Questi infatti, vengono regolarmente violati in Kazakistan ove il regime attualmente al potere riserva agli oppositori – quale è da considerare la Sig.ra Shalabayeva – sevizie e torture disumane.
Riconversione degli ex zuccherifici: allarme rosso!
Oggi abbiamo diffuso il seguente comunicato stampa.
Il Governo ci riprova con i commissari ad acta per le riconversioni degli ex zuccherifici, per cercare di imporre più facilmente ai cittadini impianti inaccettabili sul territorio, come le mega centrali a biomasse proposte a Fermo, Castiglion Fiorentino, Celano, Russi, Finale Emilia ed altri.
Con una manovra degna dei peggiori giochi di prestigio, il Governo tenta di far rientrare dalla finestra quello che la Corte Costituzionale ha già cacciato fuori dalla porta appena tre mesi fa: con la sentenza n. 62 del 5 aprile 2013 (leggi la sentenza), infatti, la suprema Corte ha cassato il comma 2 dell’ art. 29 del DL 5/2012 (leggi il testo) con il quale l’allora premier del primo inciucio, il prof. Monti, aveva tentato di legittimare la nomina dei commissari ad acta per le riconversioni degli ex zuccherifici.
Ed in effetti alcuni commissari ministeriali erano stati anche nominati per i siti di Castiglion Fiorentino (Arezzo), Celano (L’Aquila), Finale Emilia (Modena), Portoviro (Rovigo), nonché annunciati per la riconversione di Fermo (leggi l’articolo).
Su istanza della Regione Veneto, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 62 del 5 aprile 2013, ha cassato questa possibilità, dal momento che “L’art. 29 in esame deve essere ascritto alla materia agricoltura riservata alla competenza legislativa residuale delle Regioni: ne consegue che la norma viene a porsi in contrasto con l’art. 117 Cost. tanto se la si interpreti come attributiva di un potere regolamentare, quanto amministrativo”.
Oggi, il Governo prova a forzare ulteriormente la mano, riproponendo in due emendamenti all’art. 6 del cosiddetto Decreto del Fare, che aggiungono allo stesso articolo i commi 4 bis e 4 ter (vedere qui, a pag 195), il medesimo tentativo di imporre i commissari, stavolta eludendo ed aggirando persino quanto sancito dalla suprema Corte e cercando in maniera scomposta di ascrivere i progetti di riconversione degli zuccherifici al di fuori della materia “agricoltura”, per superare le sopra citate motivazioni della Consulta.
Questo tentativo appare piuttosto incoerente con l’intero quadro normativo in cui si collocano i progetti di riconversione del settore bieticolo-saccarifero e la loro implementazione: lo stesso regolamento (CE) n. 320/2006 del Consiglio, del 20 febbraio 2006 (leggi il testo), al quale nel comma 4 ter vengono fatti riferire i progetti in questione, è “relativo a un regime temporaneo per la ristrutturazione dell’industria dello zucchero nella Comunità europea, che modifica il regolamento CE n. 1290/2005 relativo al funzionamento della politica agricola comune”(come ricordato dalla stessa Consulta nella sentenza sopra citata).
Non è chiaro inoltre sulla base di quali criteri, nella proposta di comma 4bis, vengano definiti “di interesse strategico” e “priorità di carattere nazionale” impianti devastanti per il territorio come le mega centrali proposte nella gran parte delle riconversioni, che drenano miliardi di euro di incentivi pubblici a vantaggio di pochi (im)prenditori.
Il M5S si opporrà, dentro e fuori le aule parlamentari, a questo ennesimo tentativo di passare sopra tutto e tutti, persino sopra i diritti primari sanciti dalla Costituzione e dai giudici costituzionali, esigendo il rispetto delle regole e del volere dei cittadini, ad iniziare già dalla presentazione di un OdG per la seduta della Camera di oggi, a firma del deputato Donatella Agostinelli.
Riteniamo che su temi come questi non ci si possa più dividere sulla base di appartenenze partitiche, sfuggendo alle proprie responsabilità: invitiamo pertanto tutti i parlamentari provenienti dalle Regioni interessate alle riconversioni (Marche, Abruzzo, Toscana ed Emilia Romagna in primis), sulle quali potrebbero ricadere gli effetti di illegittimi commissariamenti ad acta, a contrastare con forza ed a far rimuovere i commi 4bis e 4 ter dell’art. 6 che ripropongono tali commissari.
Come parlamentari abbiamo il DOVERE di far rispettare la Costituzione ed i Diritti dei cittadini, senza piegarli alle esigenze dei soliti noti a scapito della intera collettività.
Roma, 24 Luglio 2013
Andrea Colletti, Donatella Agostinelli, Vittorio Ferraresi, Andrea Cecconi, Patrizia Terzoni – Deputati Movimento 5 Stelle
Pescara: il filobus al capolinea?
Con l’interrogazione a risposta scritta n. 4/01271 (leggi il testo completo) abbiamo chiesto al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Ministro dell’Ambiente se siano a conoscenza delle gravi criticità riguardanti l’appalto della Filovia Pescara-Montesilvano e se ritengano, nell’ambito delle rispettive prerogative e competenze, di attivarsi per valutare l’opportunità di proseguire la realizzazione di un’opera fortemente controversa, invisa ai cittadini che gravitano sul tracciato riservato e che costituiscono, principalmente, i potenziali fruitori del servizio, tanto più che l’opera, ancorché destinataria di un cospicuo finanziamento pubblico, appare priva dei fondamenti tecnico-economici a presidio di un equilibrato rapporto costi/benefici per la Comunità, in netto contrasto col dettato della Legge n. 211 del 26 febbraio 1992.
A Pescara, da oltre due anni, un buon numero di Associazioni e Comitati si batte contro la messa in opera del sistema di trasporto pubblico elettrificato denominato TPL Pescara-Montesilvano, consistente in una filovia di soli 5,750 km di percorso dal costo stimato di 31 milioni di euro.
Il finanziamento, disposto ai sensi della Legge n. 211 del 26 febbraio 1992, è stato infatti accordato dal CIPE alla Stazione appaltante in assenza del prescritto “parere favorevole” della Commissione di Alta Vigilanza (CAV).
Sussiste poi un’accertata inadeguatezza strutturale del tracciato riservato, dal momento che il sottofondo della c.d. “Strada Parco” (ex tracciato della linea ferroviaria adriatica) è privo del necessario basamento in calcestruzzo armato cui ancorare stabilmente i markers magnetici della guida automatica vincolata in dotazione al rotabile.
Il progetto, peraltro, non è mai stato assoggettato alla procedura V.I.A., ancorché dovuta, anche ai sensi della vigente normativa ambientale comunitaria. Attualmente è in corso una procedura (tardiva) di Screening di VIA a sanatoria.
Ulteriori criticità dell’appalto attengono alle difformità tecniche che sarebbero state riscontrate tra il veicolo offerto in gara, sulla carta a guida magnetica vincolata e a tecnologia altamente innovativa in grado di surclassare i rotabili proposti dalle altre due ditte concorrenti, ed il Phileas effettivamente consegnato in deposito alla Stazione appaltante GTM il 19 novembre 2011.
Dopo il tanto declamato impiego di alta tecnologia – con un investimento che supera di tre volte quello di una filovia tradizionale (la Commissione di Alta Vigilanza aveva valutato in 10 milioni di Euro il costo di una filovia convenzionale di appena 8 Km in luogo dei 31 milioni erogati dal CIPE il 19 dicembre 2002), viene nei fatti fornito un obsoleto filobus sulla tratta riservata, dal devastante impatto ambientale sul pregevole stato dei luoghi, che si trasforma poi in un normale autobus a gasolio nel centro cittadino, per di più dall’altissimo inquinamento atmosferico procurato dall’abnorme consumo di carburante (1 Km/litro).
Ciò, in evidente contrasto con le prescrizioni del Ministero dei Trasporti, di cui alla Relazione n. R.U. 59885 (TIF5)/211 PE del 6 dicembre 2006, pag.14, e con quanto risultante in sede di gara, laddove l’appalto era stato indetto e vinto con l’aggiudicazione di una commessa di 25 milioni di Euro, volta alla creazione di un sistema innovativo a tecnologia avanzata per il trasporto pubblico locale di massa a bassissimo inquinamento atmosferico.